giovedì, marzo 27, 2008

 

NO ALL'ACQUA IN BOCCA (AI PRIVATI)

Della situazione catastrofica in cui versano gli acquedotti italiani e di conseguenza gli abitanti di alcune regioni d'Italia, che possono "godere" dello scorrere dell'acqua dai rubinetti di casa solo per poche ore al giorno e per pochi giorni alla settimana, siamo più o meno tutti al corrente.
Del perchè, in una nazione che si dice civile agli inizi del terzo millennio, ancora accadono queste vergogne assurde forse è meglio ricordarlo a tutti.
L'hanno fatto Andrea Palladino e Roberto Lessio in un bellissimo articolo pubblicato su Sesta Luna qui di seguito riportato.
L'articolo è un po' lungo, ma vi preghiamo di leggerlo completamente se non altro per capire cosa si nasconde nei programmi dei nuovi due partiti/pacco quando dicono che vogliono dare più spazio alla gestione privata per il miglioramento delle infrastrutture e dei servizi pubblici al sud, e sopratutto per capire come possiamo finire o meglio come nella realtà siamo già finiti e non solo al sud:
Gli aumenti/incrementi a macchia di leopardo delle tariffe dell'acqua. Da zero a 22 per cento, negli ultimi tre anni (2005-2007), secondo una ricerca di Cittadinanza attiva, organizzazione di consumatori specializzata nei servizi di pubblica utilità. A Milano, Campobasso, Catanzaro, città virtuose, con bollette per l’uso domestico senza rincari, si contrappone Firenze, che vanta aumenti record: +8 per cento tra il 2005 e il 2006, +14 per cento nei dodici mesi successivi. E non è sola. Seguono Perugia (+15 per cento, dal 2005 al 2007), Torino e Genova (+14 per cento), Ancona (+10 per cento).
Che cosa significa? Un esempio per tutti: se una famiglia di tre persone con un consumo annuo di 192 metri cubi, vive a Milano spende 105,80 euro; se si trova a Firenze, ne sborsa più del triplo, precisamente 352. «È uno scandalo — spiega Giustino Trincia, vicesegretario dell’organizzazione —, questi dati dimostrano che non esiste un vero controllo e indirizzo sull’attività dei gestori. Ma c’è di più: i cittadini pagano, ma le bollette sono incomprensibili e poco trasparenti». Non va meglio per uffici e negozi. Uno studio della Nus Consulting sulle tariffe commerciali (2007), evidenzia altre disparità: 23 centesimi di euro, prezzo medio a metro cubo per un consumo annuo di 40 mila metri cubi (con contatore di 50 mm) a Milano, 60 a Genova, 117 a Torino, 130 a Cagliari, 157 a Palermo, 163 a Bologna. Prezzo medio: 94,20 centesimi, tre in più rispetto al 2006. In cinque anni, rincari medi del 27 per cento. (Acqua di Prevalle)

Acqua e rifiuti: il cartello (di Andrea Palladino e Roberto Lessio)

Storia di una maledizione mafiosa

Le avventure dei fratelli Pisante e dei loro potenti amici, da vent'anni pronti a gestire le emergenze idriche e il business delle discariche. Una tradizione nata nella Sicilia antica e ben cresciuta nell'Italia moderna

E’ l'inizio dell'autunno a Monreale. Il vento caldo dell'in­terno si mischia con l'odore di salsedine. È il 3 ottobre del 1874 e Felice Marchese, di professione fontaniere, viene trovato ammazzato nel giardino Vaglia: uno dei tanti omi­cidi di mafia rimasti senza colpevole. Le indagini trovaro­no però un mandante, tale Pietro Di Liberto, che mandò i sicari contro Felice Marchese, «guardiano delle fontane», perché questi non voleva far mancare l'acqua ai proprie­tari dei giardini. Acqua che lui, invece, intendeva vendere ad altri. Un delitto storico, parte della prima guerra di ma­fia documentata, che vedeva contrapposte due organizza­zioni, i Giardinieri e gli Stoppaglieli.

Sono passati 134 anni da quell'omicidio, in quella Sicilia eterna del fontaniere Marchese. L'acqua continua a essere ino­dore, insapore, incolore, ma sempre con un padrone preciso. Un padrone diffuso, spalmato tra decine di società, con sedi a Milano, a Napoli, a Parigi e in Lussemburgo. Un padrone che deve, però, continuare a baciare mani e guance, a riverire, a rispettare patti non scritti. Acqua e Sicilia, ambiente e mafia, rifiuti e politica: è cambiato qualcosa dal 1874?
L'acqua era ed è una merce, non un diritto. Un concetto mafioso (almeno in origine) che si sta espandendo all'intero pianeta. È un bene che non ha mai conosciuto crisi, sempli­cemente perché non ne possiamo fare a meno. Attraverso un pizzino o un fondo speculativo svizzero, questo diritto è sod­disfatto solo grazie a vecchi e nuovi mediatori. L'acqua ha ab­bandonato le fontane gestite dai capibastone per entrare nei bilanci delle società per azioni, che, però, non possono - o non vogliono - stare molto lontane da chi gestisce i soldi e il pote­re nella Sicilia antica, immutabile. E acqua è il nome che dà inizio a questa storia, la storia della potentissima Acqua spa, seppellita da Tangentopoli e risorta dalle sue ceneri per com­piere un'unica, strana, operazione. Acquisire il 10 per cento delle azioni di Idrosicilia spa, il moderno mediatore della se­te in Sicilia, che gestisce oggi acquedotti e dighe, rivendendo l'acqua ai comuni dell'isola.

Era un gruppo di amici affiatato, si erano conosciu­ti negli anni Settanta, quando l'Italia aveva bisogno di infrastrutture, di depuratori, di acquedotti. Amici con nomi che contano, che hanno fatto strada. C'erano due fratelli, pugliesi emigrati a Milano, Giuseppe e Ottavio Pisante. C'era Paolo Scaroni, attuale amministratore delegato dell'Eni, «recuperato» dal governo Berlusconi nel 2002 per metterlo a capo dell'Enel. C'era Gianfelice Rocca e la sua Techint, Marcellino Gavio con il suo impero infrastrutturaìe nei trasporti e Gianmario Roveraro con la sua Akros Finanziaria.
I fratelli Pisante e Paolo Scaroni avevano già lavo­rato insieme - fin dagli anni Novanta - nella Techint, il colosso delle costruzioni e della siderurgia della fami­glia Rocca. Non solo. La stessa Techint all'inizio degli anni Novanta (con la Akros e la Sofìna di Marcellino Gavio) è socia della Holding Acqua. Manager e uomi­ni d'affari, famiglie del capitalismo nostrano, ancora oggi al comando dei servizi ambientali, delle grandi in­fra strutture dell'energia. Tutti meno uno. Gianmario Roveraro, salito alle cronache per le sofisticate opera­zioni finanziarie della sua banca Akros - che organizzò la quotazione in Borsa della Parmalat di Calisto Tanzi - è finito male, trovato cadavere il 21 luglio del 2006. Era stato rapito qualche giorno prima da un piccolo in­vestitore di Ferrara, che si era sentito truffato.

Nel gennaio del 1993 Tangentopoli diventa la bufera che gela l'economia italiana. Il gruppo Acqua spa era un vero e pro­prio impero dei servizi ambientali: 2.400 dipendenti, 500 miliar­di di fatturato, 87 società controllate solo in Italia. Dove c'era acqua (senza la a maiuscola) da distribuire, qualcosa da ripu­lire (depuratori o rifiuti), lì il gruppo Acqua era presente. Alla fine del 1992, due giorni prima di Natale, Ottavio Pisante entra in cella a Foggia, nella sua Puglia. Una storia di na­stri trasportatori e di tangenti. Un paio di settimane dopo, dal carcere, coinvolge nelle inchieste un dirigente Enel vicino al Pci-Pds, Giambattista Zorzoli, che assieme all'amministratore di Elettrogeneral lo avrebbe costretto a pagare. Nel frattempo, anche l'altro pilastro del gruppo. Paolo Scaroni, in qualità di amministratore delegato della Techint, era stato coinvolto in una storia di tangenti, che riguardava la costruzione di alcune centrali dell'Enel. Vicenda che si concluse nel 1996 con la con­danna – patteggiata - a un anno e quattro mesi.

Ottavio è il più giovane della famiglia Pisante e ci tiene al­la sua futura carriera. Dalla cella pensa continuamente a quei documenti trovati dagli inquirenti pugliesi a Milano. Troppo tardi, due cartelline azzurre erano state sequestrate qualche giorno prima nella sede di una società controllata dal gruppo, la Emit. E il sunto del metodo Acqua; duecento pagine fitte di annotazioni manoscritte, cifre e nomi di politici e di porta­borse. Secondo la procura di Foggia, quei fogli sono il libro mastro delle tangenti pagate in tutta Italia e in Svizzera. Un colpo mortale. Ottavio confessa parla, spiega. Meno disposto a collaborare è invece Giuseppe Pisante, arrestato anche lui in quei giorni, questa volta per una storia di discariche. Al cen­tro dei vari affari, messi sotto la lente d'ingrandimento da un asse investigativo che si era creato tra Foggia e Milano, c'era­no le loro società, il gruppo Acqua e la Emit.
Finita la bufera, cambiano gli assetti societari. I prota­gonisti della Holding Acqua acquistano, vendono, parte­cipano e costruiscono società che si controllano a vicenda, in un inestricabile, forse, gioco di scatole cinesi. E, soprat­tutto, creano alleanze strategiche con i colossi multina­zionali nel settore delle acque e dei rifiuti: in primo luogo americani e francesi. Francesi italianizzati, in secondo.
Alleanze o cartello? Il passaggio a cavallo tra il 1993 e il 1997 è strategico. In mezzo c'è la legge Galli (de! 1994) che aprirà ai privati il mercato idrico. Ci sono tanti de­puratori da costruire o da rifare, soprattutto nella ricca Milano. Insomma, una torta gigantesca, una boccata d'os­sigeno per le aziende uscite da Tangentopoli.
Di possibile cartello parla per la prima volta la procura di Monza nel 1993, che trova nelle carte sequestrate alla Emit un accordo che — secondo l'accusa—serviva per spartirsi i lavori delle infrastrutture ambientali. L'antitrust apre un'inchiesta, analizza il dossier che «contemplava un complesso sistema d'at­tribuzione e stabiliva che, per ogni singolo appalto per il quale era prevista la partecipazione delle parti, queste esprimessero un leader il quale, dichiarando di essere particolarmente intro­dotto nella specifica iniziativa, assumesse la responsabilità dì espletare ogni e qualsiasi azione per arrivare all'aggiudicazio­ne» (Autorità garante della concorrenza e del mercato; 8 giu­gno 1994). Ma, sempre secondo l'Antitrust, non vi fu cartello, visto che lo stesso accordo non avrebbe avuto attuazione.
Dopo qualche anno, nel marzo del 1997, il vicesindaco di Milano Giorgio Malagoli riceve un fascicolo che parlerebbe an­cora una volta di un cartello, sempre guidato dalla Emit. Secon­do uno studio di due ricercatori dell'Università di Greenwich e della Bocconi (Water time case study D-33, del 2005) questo nuo­vo accordo avrebbe avuto due nuovi attori, due multinazionali francesi che stavano sbarcando in Italia: la Suez (ali 'epoca Degremont) e la Veolia (conosciuta allora con il nome di Generale des Eaux). Le stesse che oggi - grazie ad alleanze strategiche - controllano l'acqua dì molti milioni di italiani.

Nel 1998, fra i tanti nomi di Tangentopoli, quello dei Pisante ormai si confonde. La memoria che Gerardo Colombo ha assunto come vizio imperdonabile non è il punto forte nel nostro Paese. Qualche processo finisce patteggiando, qualcun altro con assoluzioni o prescrizioni. C'è da lavorare a Milano, unica città europea senza un depuratore. C'è la novità dei fran­cesi di Veolia e di Suez, colossi mondiali dei servizi ambientali subentrati agli americani. La storia insegna che i colossi han­no poi bisogno delle formichine, che riescono a entrare ovun­que. Vale a dire di chi detiene, di fatto, le chiavi del business dell'acqua e dei rifiuti. Pisante (Giuseppe), che opera con le varie sigle Acqua, Emit o Siba, ha in mano un appalto, il più grande d'Europa, per la realizzazione dei depuratori di Mi­lano. Basta mettersi d'accordo. Milano vive una vera emer­genza, con i poteri straordinari attribuiti al sindaco Gabriele Albertini. Gare e appalti da assegnare che, guarda caso, ven­gono vinte dal «cartello» formato dai fratelli pugliesi, dalle due multinazionali francesi che dovrebbero darsi battaglia in no­me della concorrenza del mercato e dall'immancabile presen­za del colosso di turno della Lega delle Cooperative.

Solo un anno dopo, nel 1999, il patto di ferro tra la Veolia e i Pisante viene siglato dividendo il pacchetto azionario dalla Siba, che oggi è presente nella gestione di moltissimi ambiti idrici e co­struisce depuratori in tutt'Italia.
Ed è proprio la realizzazione dei depuratori il suggello del patto: Pisante, Veolia e Suez sono soci inseparabili a Milano. L'Emit e la Veolia Water convivono sotto lo stesso tetto, in via Lampedusa 13, poco distanti dai depuratori che hanno costrui­to insieme. Le loro società diventano le chiavi di volta per capi­re la Sicilia dell'acqua e dei rifiuti del ventunesimo secolo. Se nel 1993 i nomi di Giuseppe e Ottavio Pisante spariro­no dal Who’s who (gli americani, è noto, non amano le tangen­ti che inquinano il mercato), oggi sono di nuovo alla ribalta. «Non esagerate con gli antipasti, stiamo aspettando la cena», avrebbe detto Giuseppe Pisante a uno dei manager di Acqua-latina, società mista che gestisce l'acqua nel Sud del Lazio, do­ve Veolia possiede la quasi totalità delle azioni in mano al socio privato. Quale fosse la cena lo hanno raccontato i magistrati di Latina, che hanno arrestato il 23 gennaio scorso sei perso­ne tra manager e componenti del consiglio d'amministrazio­ne. Tutti legati al gruppo Veolia, meno uno. Paride Martella, ex Udc, passato poi all'Italia dei Valori, ex presidente della provincia e del cda di Acqualatina. La società della città la­ziale è stata uno dei primi laboratori del modello di gestione misto pubblico-privato in Italia (Diario aveva raccontato la vi­cenda con un'inchiesta, nel marzo dello scorso anno). Con la privatizzazione di fatto delle risorse idriche di Latina (l'am­ministratore delegato e le mosse più importanti sono decise dai soci privati, anche se possiedono solo il 49 per cento delle quote), Acqualatina spa è divenuta la creatura da difendere con i denti per i politici locali (la zona è tradizionalmente di centrodestra), che spesso ricevono incarichi nella società. E in provincia di Latina la prima conseguenza del modello Acqua la vivono gli utenti, che hanno ricevuto bollette con aumenti che arrivano, in alcuni casi, anche al cento per cento.

Qui l'accordo di Milano ha funzionato per i fratelli Pisante. Anche se è la multinazionale francese Veolia ad avere il controllo, di fatto il menù lo stabiliscono loro, che di acqua se ne intendono. Ma la cena che sta per arrivare non è solo a base d'acqua. Nella ricca, ricchissima, carta dei servizi ambientali italiani ci sono molte altre «emergen­ze» in corso, il vero viatico di ogni buon affare. A Latina, i soldi degli appalti che sarebbero stati spartiti - secondo la procura - tra i soci privati, senza nessuna gara a evi­denza pubblica (come impone la normativa comunitaria), sono finiti in mano alle stesse società inserite nella com­posizione societaria. Appalti in house, si chiamano. Cioè fatti in casa. Acqualatina è stato in fondo solo un labora­torio d'idee e di comportamenti.
Ma i veri affari arrivano più a sud. E lì che tro­viamo il modus operandi del «cartello» controllato dai Pisante e soci.

È solo di qualche mese fa l'ultimo allarme siccità nel Sud Italia. Non è una novità: ogni estate i rubinetti, in Calabria e in Sicilia sono secchi. Il caldo, le mutazioni climatiche, la siccità. Immaginiamo Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria, Mes­sina, Crotone e pensiamo al deserto prossimo venturo. Eppu­re la Calabria e la Sicilia sono ricche d'acqua.
Negli anni Settanta a Palermo vi fu una delle più gra­vi emergenze idriche del dopoguerra. Il ministero dei Lavori Pubblici decise di aprire un'inchiesta sulle fonti d'approvvi­gionamento idrico: nel piano regolatore generale degli acque­dotti del 1968 c'erano solo 13 pozzi censiti. In realtà, la Sicilia aveva già 1.649 pozzi, che fornivano acqua abbondante tutti i giorni. E allora? Erano pozzi gestiti da note famiglie, i Greco di Ciaculli, i Buffa, i Marcerò, i Motisi, i Teresi.
Oggi i pozzi gestiti dai privati sono più di 20 mila, secondo l'ultimo censimento curato dal generale Rober­to Jucci, commissario straordinario fino al 2000. Una ri­sorsa potenziale di un miliardo di metri cubi.
Ed è in questo momento che Pisante, Veolia e l'Enel guidata all'epoca dall'amico di sempre, Paolo Scaroni, arrivano. Nel 2004 — in piena emergenza idrica, con commissario straordinario Felice Crosta, indicato dal go­vernatore Cuffaro — entrano come soci privati del nuovo gestore dell'acqua, il colosso Siciliacque, che gestisce gli acquedotti, le dighe e gli invasi. Sì aggiudicano il 75 per cento del pacchetto, con il controllo totale della socie­tà.
L'acqua la comprano dall'Ente acquedotti, dall'Enel - nella doppia veste di socio e fornitore - e da qualche fontaniere alla maniera antica, siciliano doc, come Pietro Di Vincenzo, padrone del dissalatore di Gela. Arrestato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa - con una pena in realtà lieve, un anno e otto mesi inflit­ti dal tribunale di Roma - Di Vincenzo ricorda i vecchi fontanieri, i padroni dei pozzi. Ex presidente della Confindustria di Caltanissetta, oggi si ritrova il suo patrimo­nio di circa 260 milioni di euro sotto sequestro e le sue aziende gestite dai fiduciari dei tribunali. Nella relazio­ne di bilancio del 2005 della sua azienda preferita, la Di Vincenzo spa (che nel 2005 ha venduto alla società con­trollata da Veolia/Enel/Pisante quasi due milioni di eu­ro d'acqua), qual era il suo interesse sta scritto nero su bianco: abbandonare il cemento e il mattone per entrare sempre di più nel mercato idrico. Ma non solo. Nel 2005 l'interesse di Pietro Di Vincenzo arriva anche in Sarde­gna, dove si occupa dell'Acquedotto Govossai a Nuoro; partecipa alle gare del commissario all'Emergenza idrica, proponendosi come progettista d'impianti di dissalazio­ne; cerca di aggiudicarsi la gestione dell'acqua a Trapani, unico a presentare un'offerta...

A unire i soci del Nord Italia, la famiglia Pisante, i francesi di Veolia e le aziende locali che, come dire, co­noscono il territorio, c'è oggi un altro business, la monnezza. In italiano si chiama immondizia, ma ormai solo la declinazione in dialetto campano fa testo: soprattutto per il meccanismo delle regole che vengono sistematica­mente sospese. Là lo sono da oltre tre lustri. Chi vuo­le capire l'economia in Italia deve vedere dove vengono nominati i commissari straordinari. Di straordinario lo­ro hanno soprattutto il potere di affidare i servizi pubbli­ci essenziali, anzi, vitali, quali l'acqua e i rifiuti appunto, senza gare e spesso senza valutazioni sulla trasparenza di chi li gestirà. C'era un'emergenza a Milano: si fecero i depuratori, pagandoli a peso d'oro. C'era un'emergen­za in Lombardia negli anni Novanta: vennero costruite le discariche, che poi diedero qualche guaio giudiziario (a puro titolo di esempio) a Paolo Berlusconi; c'era - e c'è ancora oggi - l'emergenza per i rifiuti in Sicilia, do­ve si aspettano i soldi del Cip 6 (i contributi di Stato per le energie rinnovabili, «deviati» verso l'incenerimento dei rifiuti - piuttosto che verso le vere fonti rinnovabi­li) per aprire i cantieri per quattro inceneritori. Protago­nisti? Ancora loro, gli eterni fratelli Pisante che, con le partecipazioni azionarie e le varie scatole cinesi, risulta­no essere soci di tutti i soggetti «vincitori» degli appalti siciliani: assieme al gruppo Falck (controllore di Actelios-Elettroambiente) e il gruppo Waste Italia.
Un ulteriore grande affare per il gruppo di aziende della Milano da bere sta per andare in porto in questi giorni. E da poco scaduto il termine dell'ennesima pro­roga per l'aggiudicazione del bando per il completamen­to del termoinceneritore di Acerra. Dopo una prima fase in cui sembrava che a partecipare fossero tre cordate ca­peggiate da Veolia, dalla Asm di Brescia e dalla spagnola Urbaser, ora sembra che solo i francesi alleati di Pisante siano ancora in competizione. Delle due l'una: o si fa un nuovo bando, oppure si va (come da prassi italiana a se­guito di un'emergenza) all'affidamento diretto.
In questo secondo caso, Veolia sta già contrattando la posta in gioco. Vuole garanzie politiche. Insieme al ter­moinceneritore vorrebbe anche una discarica da oltre 700 mila tonnellate all'anno. Vuole i contributi del Cip 6 che vengono prelevati dalle nostre bollette: le più care d'Eu­ropa proprio a causa di questi costi. Se non saranno date queste garanzie, i termovalorizzatori non si faranno (per­ché non sono economicamente convenienti) e i rifiuti pos­sono restare per strada all'infinito. Per ora Prodi, anche se dimissionario, è riuscito a garantire i contributi, con un decreto varato alla fine di gennaio, mentre alle altre ga­ranzie sta lavorando il commissario De Gennaro. La fi­ne dell'emergenza dipende dalla volontà e dagli interessi di chi ha in mano da ormai tanti anni i servizi ambienta­li in Italia, non da altro. Deciderà probabilmente Veolia, il vero padrone del settore in tante regioni del Sud Ita­lia. Grazie ai monopoli «naturali» dell'acqua e dei rifiuti, i francesi e i loro alleati italiani possono decidere sui no­stri bisogni primari: bere e avere una qualità di vita de­cente, almeno con le strade liberate dai rifiuti.
E lo scandalo Campania può continuare ad andare in onda in diretta mondiale, ma senza fare alcun cenno al­le situazioni gemelle a Latina, in Calabria, in Sicilia e, so­prattutto, a Milano. I nostri diritti hanno bisogno di essere ancora «mediati» da qualcuno. Come 134 anni fa.


PS
Se siente riusciti ad arrivare fino in fondo l'articolo, senza vomitare, imprecare, minacciare di strappare il certificato elettorale, di non andare mai più a votare, allora significa che siete più forti di noi. O magari siete arrivati al quel punto di rottura con la politica che "chissenefrega e vaffanculo tutti quanti". Se è così significa che hanno già vinto loro (i partiti). Se invece non volete che vincano (a nostro discapito, cioè a discapito della gente onesta), allora vi preghiamo di diffondere quanto più possibile questo articolo in modo che non si resti mai più con l'acqua in bocca e sopratutto con acqua privata.


PSS
In Bolivia qualche anno fa ci fu una rivoluzione per l'acqua, causata proprio dall'apertura ai privati del mercato dell'acqua, che alla fine portò ad un'enorme incremento delle tariffe e addirittura a lasciare interi agglomerati cittadini e di conseguenza migliaia di persone (i più poveri che non potevano pagarsi l'allacciamento alla rete idrica) senza acqua. Facciamone tesoro, magari qualcosa del genere prima o poi succede anche da noi. Parliamo della rivoluzione, naturalmente. MAGARI!!!


PSSS
Da questo sito il 4 aprile trasmetteremo in diretta l'incontro organizzato dall'associazione Break the Mafia a Bologna. Ospiti: Oliviero Beha, Peter Gomez, Antonio Ingroia, Libero Mancuso, Giuseppe Maniaci, Daniele Martinelli. Moderatore: Paolo Colonnello.
Non Mancate.


F.to
Comitato contro l'indulto
comitatocontroindulto@gmail.com

venerdì, marzo 21, 2008

 

ALLO STREMO DELLE FORZE

"Gli agenti di polizia penitenziaria sono ormai allo stremo"
Roma, 20 mar. (Apcom) - Nelle carceri italiane attualmente ci sono oltre 51mila detenuti: l'indulto ha fallito, è l'analisi dell'Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, che commenta le dichiarazioni del numero due del Pd Dario Franceschini. "Il provvedimento d'indulto che ha messo fuori, fino ad oggi, 27.279 detenuti si è rivelato un fallimento, ha dichiarato in un nota il segretario generale dell'Osapp Leo Beneduci che "si unisce all'analisi del vice segretario del Pd Dario Franceschini che parlando oggi a 'Repubblica TV' aveva giudicato l'indulto sbagliato e frutto di una scelta che il governo aveva subito".
Ma aggiunge Beneduci: "A questo punto se, dopo il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e il ministro della Giustizia, anche il vicesegretario del partito più grande del centrosinistra giudica fallimentare l'esperienza di due anni fa, rimettiamo all'opinione pubblica il giudizio su un'iniziativa, frutto allora del consenso di due terzi del Parlamento, che fino adesso non ha realizzato altro che 8.612 rientri, nessun reinserimento sociale, niente eliminazione della recidiva, e nessuna politica di investimento per l'edilizia carceraria".
Il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane secondo i dati dell'Osapp è 51.317, quindi, conclude Beneduci, "ci domandiamo a questo punto chi abbia subìto il provvedimento, se i politici o gli istituti di pena, che allo stato attuale presentano una capienza non più tollerabile di 51.317 detenuti, e soprattutto un corpo di polizia penitenziaria ormai allo stremo delle possibilità".
(completamente tratto da Notizie Alice)

Non solo gli agenti penitenziari sono allo stremo, lo siamo oramai anche tutti noi cittadini. Allo stremo delle forze perchè non ce la facciamo più a sopportare le menzogne di questa classe politica che prima concepisce l'indulto e poi promette sicurezza senza il benchè minimo senso della vergogna. Una promessa che suona come un insulto alla memoria delle migliaia di vittime dei carcerati indultati e a tutti coloro che ancora hanno un minimo senso della giustizia in Italia.

A breve pubblicheremo i nomi di tutti i politici che hanno votato l'indulto e che sono ancora presenti nelle liste dei nuovi partiti/pacco. Se è vero che con questa insulsa legge elettorale ci impediscono di scegliere le persone che dovrebbero rappresentarci, che almeno ci si possa fare un'idea di quanti parlamentari votanti l'indulto sono stati riconfermati dai loro vertici di partito e per questo magari decidere di votare oppure no questi partiti. Tra i tanti non sarebbe certo il peggior metodo di giudizio.

Per questo teneteci d'occhio.

F.to
Comitato contro l'indulto
comitatocontroindulto@gmail.com

venerdì, marzo 14, 2008

 

LETTERA A PIERSILVIO

Non avendo potuto soddisfare la richiesta di un nostro lettore che ci chiedeva l'e-mail di Piersilvio Berlusconi, pubblichiamo nel nostro spazio la sua lettera, fungendo da tramite, come un'agenzia matrimoniale, nella speranza che Piersilvio, prima o poi possa leggerne il contenuto e contattare, tramite noi, l'autore.

Caro Piersilvio,

dopo le dichiarazioni di suo padre, mi permetto con la presente di avanzare ufficiale richiesta di matrimonio o semplice convivenza con lei. Sa io sono precario da 8 anni e in quanto tale me la prendo nel culo ogni santo giorno per pochi spiccioli.
Se lei accetterà la mia proposta almeno la prenderò nel culo per qualche migliaio di euro al mese (sperando sempre nella sua generosità d'animo che credo impedisca ad un suo eventuale compagno di vivere con meno di 5.000 euro al mese - Lapo a Patrizia ne dava 4.000 alla settimana, perciò veda lei). Sono già sposato ma ne ho parlato con mia moglie e le posso dire che lei è daccordissimo. E' già andata dall'avvocato per fare richiesta immediata di separazione.
Mi creda sono il suo compagno ideale: non sono rumoroso, non sporco, non impreco (o almeno con lei cercherò di non farlo), ho smesso di votare sinistra ai tempi dei DS quando c'erano D'Alema e Fassino e le prometto di non votare Bertinotti & C. e men che meno Veltroni, anche perchè questa gente a sinistra hanno solo la tasca del portafoglio).
Se vuole posso anche fare i servizi domestici e aiutarla facendole da segretario/lustrascarpe personale.Insomma come dire, io sono veramente innamorato di lei e per lei sarei disposto a fare qualunque cosa. A dire il vero solo una cosa non riuscirei a fare pur sforzandomi, e la prego umilmente di non chiedermelo mai: votare per suo padre.Precario sì ma rincoglionito ancora no.

Nella speranza di una sua risposta colgo l'occasione per inviarle i miei più sentiti saluti

Vittorio
in allegato una mia foto di quando avevo 20 anni (quelle attuali è meglio che non le veda, sa 8 anni di lavoro precario ti distruggono oltre che nella mente anche nel fisico)

PS
Il lavoro precario è una cosa seria ed è una tragedia reale del nostro Paese (Luigi Rocca, l'ottava vittima della Thyssen) e questi politici miliardari hanno pure il coraggio di scherzarci sopra. Loro non si vergognano di nulla, speriamo solo che chi ha in mente di votarli almeno provi un po' di schifo! Noi lo stiamo provando da tempo, e voi?

F.to
Comitato contro l'indulto
comitatocontroindulto@gmail.com

This page is powered by Blogger. Isn't yours?